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uguaglianza non c'era perché gli altri ci avevano ridotti al rango di animali da soma e da macello.
Ancora oggi mi chiedo a volte - ed è alla loro salvezza che penso - se quanti parteciparono
con tanto zelo a questo compito infame udissero levarsi dalle nostre file voci umane, o se, grazie a
chissà quali malefici operati sul loro cervello dalla propaganda dei gerarchi, non percepissero
soltanto belati e muggiti.
Come animali, dunque, fummo radunati e spinti, e tenuti al passo dal bastone. Fummo stipati
su un carro bestiame (e dove altro se no?), e i portelloni si richiusero, lasciandoci al buio, senza aria,
né cibo, né acqua per il tempo di un interminabile viaggio. Dovemmo pigiarci l'uno contro l'altro per
occupare quello spazio migliore, per raggiungere quello spiraglio di luce, per sottrarci al fetore degli
escrementi, e infine anche all'orrore dei primi cadaveri. E poiché l'aria era scarsa e filtrava da alcune
grate poste troppo in alto, quando nelle lunghe ore di sosta sotto il sole veniva a mancare del tutto,
furono proprio i più deboli a evitare con il sostegno dei loro corpi ormai privi di vita che altri
morissero soffocati.
Dal momento della partenza avevo perso di vista i miei genitori. Sicuramente si trovavano
sullo stesso convoglio, ma disperavo di trovarli ancora in vita. Quando, dopo parecchi giorni e
parecchie notti di viaggio, il treno arrivò a destinazione, e i portelloni finalmente si aprirono,
trovammo ad accoglierci le guardie armate, con i cani, e per prima cosa ci fu ordinato di rimuovere i
morti per disporli uno accanto all'altro in una lunga fila sulla banchina. Decine e decine di persone
erano spirate in tutto il convoglio, primi fra tutti i vecchi e gli ammalati. Solo allora rividi i miei
genitori, ma non mi fu possibile avvicinarmi a loro. Qui, dopo una sosta di un'ora, ebbe luogo la
selezione. Uomini, donne, vecchi e bambini vennero divisi e incolonnati. Fummo poi avviati in
direzione del campo. Non potevamo immaginare quanto fosse distante. Molti però, stremati, non
riuscivano a camminare: chi si fermava o cadeva per la debolezza veniva percosso, e se non aveva
la forza necessaria per proseguire, era finito sul posto. Non ci era consentito di prestare loro alcun
soccorso; spesso si accasciavano davanti a noi ed eravamo costretti a scavalcarli; alle nostre spalle,
allora, non dovevamo aspettare molto per sentire il furioso abbaiare dei cani e le imprecazioni,
seguite dagli spari.
Al luogo cui eravamo destinati giungemmo solo dopo due lunghissime ore di cammino. Era
un agglomerato di costruzioni di mattoni e legno, circondato da un filo spinato alto tre metri e
presidiato da torrette con guardie armate e riflettori. Eppure. quando attraversammo quest'area vasta
quanto una cittadina e ugualmente ordinata, con ampi viali che si intersecavano ortogonalmente in
mezzo ai gruppi di baracche tinteggiate di fresco, provai, per un attimo, un ultimo ingannevole
senso di conforto: ebbi quasi la speranza che, in un posto tenuto in ordine con tanto scrupolo, nulla
di male ci sarebbe potuto accadere. C'era persino della musica: le note del Tanehäuser, provenienti
da un grammofono, si confondevano con quelle, più incerte, dei valzer di Strauss eseguiti da un
grottesco gruppo di suonatori disposti su una pedana di legno isolata in mezzo al piazzale deserto.
Ma, avvicinandosi, si scopriva che quella specie di tettoia sotto la quale si accaniva l'orchestrina
reggeva una grossa trave da cui spuntava una lunga serie di ganci sufficientemente robusti per
sostenere il peso di un uomo.
Su quello spazio i vari gruppi vennero separati. Mia madre sembrò seguire il proprio destino
con rassegnazione: si mise in fila con le altre donne, stringendo fra le braccia un fagottino con le
poche cose che aveva con sé; e mentre si allontanava levò furtivamente una mano verso di me in
segno di saluto. Fu un gesto rapido e circolare, con il palmo della mano aperto, come se per
scorgermi dovesse pulire un vetro appannato.
Mio padre, invece, non resse all'affronto e tutt'a un tratto si ribellò, cominciando a protestare
ad alta voce e tentando di allontanarsi dal gruppo a cui era destinato. Paralizzato dall'orrore, vidi che
lo trascinavano indietro a furia di bastonate, lo vidi cadere per poi rialzarsi brancolando perché
aveva smarrito gli occhiali, e mentre si chinava per cercarli a tastoni, lo colpirono ancora, per
scaraventarlo infine in mezzo agli altri, orbo e con il sangue che gli imbrattava la faccia. Fu quella
l'ultima volta che vidi i miei genitori. Nessuno dei due sarebbe sopravvissuto a quel luogo.
Parlare dei giorni, dei mesi che seguirono, non mi riesce facile. Certo: potrei farne una
cronaca minuziosa, ma non riuscirei in ogni caso a esprimere quel depredamento, quel sistematico
saccheggio interiore cui fummo sottoposti sin dal primo istante.
Se è vero che l'affermazione della propria individualità è sempre stata una legittima
aspirazione dell'uomo, è altrettanto vero che l'uomo ha cercato anche di coltivare una scienza che
quell'aspirazione fosse in grado di soffocare in qualsiasi momento. E se un metodo sicuro per
demolire la personalità di un individuo consiste nell'isolarlo completamente dagli altri, un sistema
non meno efficace si rivela quello di costringerlo, insieme con i propri simili, in uno spazio
insufficiente. Se nel primo caso il moto della follia appare centrifugo, poiché nell'assoluto
isolamento la coscienza lievita e si espande nella vertigine dell'infinito, questa medesima coscienza
tende, nell'angustia e nella promiscuità coatte, a smarrirsi, scivolando in una follia centripeta che
non guarda più al futuro, ossia al panico di un'imminente disgregazione, ma si ripiega su se stessa,
verso un passato preumano che la schiaccia con l'inverosimile somma di morti e sofferenze già
avvenute. La personalità regredisce, allora, e si fonde in un'anima comune, istintiva, nella quale
esiste solo l'impulso a ritrarsi da un dolore onnipresente. Se mai un moto di reazione diverso da [ Pobierz całość w formacie PDF ]
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